In questi giorni è tornata alla ribalta una proposta proverbialmente mancata, che ha segnato la linea e il destino di molti governi italiani: il ponte sullo Stretto di Messina.
Il pensiero di realizzare un collegamento tra i due lembi di terra, però, sembra avere origini molto più antiche: Plinio il vecchio narra che, ai tempi delle guerre puniche, il console Cecilio Metello costruì un raccordo tra l’isola e lo stivale con delle botti di legno galleggianti, legate insieme per far transitare dalla Sicilia gli elefanti sottratti ai cartaginesi. L’impresa è stata considerata il fallimento di Carlo Magno, di Ferdinando II di Borbone, Benito Mussolini, Bettino Craxi, ma a rendere questo monumento un simbolo per la nostrana inconcludenza è stato il premier Silvio Berlusconi.
È stato proprio lui a mostrare il primo modellino del ponte, il quale, secondo le sue parole, avrebbe fatto sì che “chi ha un grande amore dall’altra parte non dovrà aspettare i traghetti per tornare alle 4 del mattino”. Un’applicazione dalle ancora troppo futili motivazioni, accompagnata da cifre del tutto illusorie: «Servono 9mila miliardi metà ce li mettono i privati, 1000 la Ue, per cui ne bastano solo altri 3500» aveva assicurato il premier, ma la sua previsione di spesa è andata a schiantarsi contro la crisi economica e con l’era della spending review.
Eppure l’idea ripresa da Renzi, era nata proprio come un sogno di sinistra: era diventata il sogno di un ministro socialista, Claudio Signorile, che pronosticò la costruzione del ponte nel 1995. L’allora premier D’Alema nominò due specialisti per indicare se i lavori fossero praticabili e le analisi ebbero esito positivo. Era favorevole al ponte anche Rutelli, che nel 2001 si candidò alla presidenza del consiglio. Unica pecora nera sembra essere stato Romano Prodi, che avrebbe voluto bloccare il progetto col beneplacito dell’allora ministro dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro, ma nel lontano 1985, quando era ancora a capo dell’Iri, aveva elencato i benefici che i trasporti, in teoria, avrebbero potuto trarne: «l’auto risparmierà 40 minuti, l’autocarro 35 e il treno 92».
Entrambi gli schieramenti, dunque, avevano da sempre risollevato le sorti del proprio programma attingendo all’immaginario di questa enorme opera pubblica, ma dall’era Berlusconi il progetto era uscito completamente dalla programmazione delle infrastrutture dello Stato che da quella europea. La società Stretto di Messina Spa, che aveva creato il primo progetto di massima nel 1992, ora è quasi in liquidazione, il consorzio Eurolink, guidato da Salini Impregilo, è in crisi con le aziende costruttrici e perciò ricompattare la situazione richiederebbe innumerevoli sforzi e tempo, soprattutto quello concesso dal Tribunale di Roma.
Riprendere quest’idea, quindi, sarebbe davvero un’azione fruttuosa? I contrari all’opera non hanno dubbi: sarebbe solo uno spreco di denaro pubblico. A parte i rischi ambientali che si potrebbero semplificare nel deturpamento di una delle zone paesaggistiche più belle d’Italia con 100.000 tonnellate di cemento, si hanno quelli di infiltrazioni di organizzazioni mafiose negli appalti, nelle forniture, nei servizi, trasporti, consulenze, che potrebbero danneggiare la qualità dei materiali e della strumentazione utilizzata a discapito, come sempre, della sicurezza. Il risparmio di tempo nella rete di trasporti si potrebbe infatti rimodernare la rete ferroviaria siciliana, che viaggia spesso a binario unico, a un costo nettamente minore rispetto a quello proposto dai lavori di congiunzione.
Ci sono anche altre motivazioni messe in campo da chi è a favore del “no”: i dubbi sulla fattibilità della struttura che, come ha rivelato Aurelio Misiti, principale responsabile tecnico, “sarebbe inadeguata così com’è stata progettata, poiché non esiste ancora al mondo un ponte a campata unica superiore a 1500 m percorso da treni e quello di Messina ne dovrebbe misurare 3360” e l’alto rischio sismico: il ponte dovrebbe reggere a una scossa di magnitudo 7.2.
Dopo tutti questi dati perché riprendere in mano le carte del progetto? Certo è che, come ha ricordato il premier Renzi, si avrebbe la disponibilità, per oltre un decennio, di un certo numero di posti di lavoro (100mila secondo le sue stime), ripartiti tra le imprese di costruzione, le concessionarie e l’indotto, un maggiore flusso di traffico merci e persone, con benefici per l’economia locale, il turismo e il commercio.
Forse è vero che, parafrasando il Wall Street Journal, quel ponte rappresenta “emblema della storica indecisione che incatena l’Italia al proprio passato”, ma se Cecilio Metelello aveva in mente di costruirlo solo per il proposito di trasportare elefanti, come potremmo noi, che viviamo in un mondo ancor più globale, decidere di non creare infrastrutture per collegarlo? Si potrebbe, allora, tentare un piano per coadiuvare questo passaggio, rinforzando prima i collegamenti delle regioni interessate per poi, in un periodo di investimenti favorevoli, tentare finalmente di unirle.
Giorgia Golia