La campagna elettorale è stata una delle più infiammate degli ultimi anni, fatta di scandali, parole fuori posto e rovinose mail rese pubbliche, ma stanotte, dopo una lotta senza esclusione di colpi, si è finalmente trovato un vincitore: Donald Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America.
È stato acclamato alle sette di stamani (ora italiana) dopo la vittoria in quasi tutti gli Swing States come la Florida, la Carolina del Nord, il Nevada e l’Ohio, che dal 1896 ha sempre votato per il futuro presidente. Lo scarto che lo ha separato dalla sua principale avversaria Hillary Clinton è stato ad ampio margine: 276 grandi elettori repubblicani su 218 democratici, ma i suoi contendenti erano anche Gary Johnson (Partito Libertario), Jill Stein (Verdi) e Evan McMullin (indipendente).
President Trump, acclamato nelle prime ore di oggi, ha subito deciso di organizzare una conferenza stampa, in cui ha dichiarato, calando immediatamente la maschera di demonizzazione dei confronti della candidata democratica: «Ho appena ricevuto la chiamata del segretario Hillary Clinton, che si è congratulato con noi per la vittoria. Ha lavorato duramente per questo paese in passato, e per questo la ringrazio, ma ora è il momento di andare avanti. Ora è il momento di riunirci: democratici, repubblicani e indipendenti, insieme per il rinnovamento del sogno americano. Nessuno sarà più dimenticato».
Toni, questi, che sembrano quasi non appartenergli, vista la sua feroce campagna di dissenso e distacco forte dall’operato dell’establishment targato Obama: il repubblicano ha infatti dichiarato di volere costruire un muro tra Usa e Messico, mettendo fine all’immigrazione incontrollata in un paese nato grazie alle prime migrazioni (dall’Inghilterra e dall’Europa, ma non per questo meno disperate) di reietti della religione e della società.
L’idea di Trump sulla revisione fiscale del paese consiste in parecchi tagli alla tassazione: egli intende far scendere al 33% la massima pressione per le persone fisiche e al 15% quella per le persone giuridiche, soprattutto per ingraziarsi i grandi contribuenti e i grandi finanziatori, ma occorrerà controllare se, dopo la grave crisi finanziaria e automobilistica di qualche anno fa, queste misure potranno essere attutate nel breve e lungo periodo.
Trump, inoltre, è propenso all’isolazionismo americano, un comportamento tipicamente caratterizzato dall’utilizzo di armi nucleari per combattere contro i nemici del Paese, come ha spesso dichiarato in campagna elettorale. Il vero isolazionismo, tuttavia, dovrebbe prevedere il ritiro delle truppe statunitensi da ogni missione militare in corso e una controllata distanza degli Stati Uniti da ogni altra questione mondiale che non li coinvolga direttamente.
L’economia promossa dal nuovo Presidente, come ci si poteva aspettare, risulta essere piuttosto liberalista, con poche ingerenze da parte dello Stato Centrale sulle attività dei cittadini americani, i quali, a loro volta, non dovrebbero richiedere più fondi statali per la sanità e i servizi sociali.
L’America di Trump non si struttura così come un’alma mater in grado di far fronte ai bisogni di ognuno, tanto da far sì che qualsiasi individuo, partendo dal nulla, possa arrivare a “far tornare l’America grande”, bensì come uno stato individualista dove vige, al di sopra di tutto, la logica del migliore, o del più forte.
Molti commentatori hanno definito il risultato delle votazioni come un’apologia del popolo americano, tornato indietro dall’innovativa decisione di eleggere un nero alla Presidenza e scegliendo, come da tradizione, un bianco, ricco, anglo sassone e protestante. Ma mentre soltanto oggi il neoeletto Mr. President ha finalmente fatto un appello all’unità nazionale, la scorsa notte Barack Obama, ancora ufficialmente in carica fino al prossimo 20 gennaio, ha deciso di commentare così la fine della campagna: «Ricordate: non importa che cosa accadrà, il sole domattina sorgerà e l’America sarà ancora il più grande Paese al mondo. Mentre abbiamo certamente visto qualcosa di nuovo, ciò che non è nuovo è che la nostra democrazia è sempre stata turbolenta e aspra. Siamo passati per elezioni dure e divisive in passato e ne siamo sempre usciti più forti». Risulta chiaro quindi che, in questo caso, per chi ha utilizzato la divisione come arma vincente sarà molto difficile ricompattare un Paese sempre più sgretolato dalle differenze sociali, perché per farlo non servirà solo dialettica e qualche slogan.
Giorgia Golia